Lo scorso articolo ha posto le basi per parlare, più avanti, della nostra corteccia cerebrale in modo più approfondito. Oggi, però, vorrei parlare di come si indagano il cervello e i processi cognitivi, soffermandomi su un argomento molto importante: gli esami neurologici. Parleremo in particolare dell’esame neuropsicologico e gli esami strumentali da presentare al primo appuntamento con il professionista.
Abbiamo visto in un articolo pubblicato qualche tempo fa che, quando parliamo di sistema nervoso e cervello, la figura professionale a cui bisogna fare riferimento è, appunto, il neurologo. Ma perché parlare allora dell’esame neuropsicologico?
Sommario dell’articolo
Gli esami neurologici: il punto di partenza è l’esame neuropsicologico
L’esame neuropsicologico viene effettuato dal neuropsicologo, ovvero uno psicologo con competenze neuropsicologiche. A differenza del neurologo, che è medico e si occupa di tutti i disturbi legati al sistema nervoso, il neuropsicologo è formato specificatamente per valutare e trattare i disturbi cognitivi. Capirete, quindi, che spesso le due figure inevitabilmente collaborano.
Dovete immaginarvi il neuropsicologo come un detective del cervello. Infatti, è colui che indaga e interpreta il funzionamento cognitivo del paziente sulla base degli indizi che raccoglie attraverso specifici metodi. Alla fine delle sue indagini, potrà trarre delle conclusioni e spiegare all’interessato quali sono le possibili cause dei suoi sintomi (ipotesi diagnostiche).
Ovviamente, non essendo medico, il neuropsicologo non potrà fare a questo livello una vera e propria diagnosi ma sicuramente la relazione, che redigerà in seguito alla valutazione neuropsicologica, sarà uno strumento indispensabile per il neurologo. Infatti, quest’ultimo avrà tra le mani un documento che gli permetterà di inquadrare la sintomatologia, dandogli un’etichetta (diagnosi).
Gli strumenti valutativi del neuropsicologo
Molti, a questo punto, si domanderanno: “ma come fa il neuropsicologo ad indagare i processi cognitivi e quindi il cervello?”. Domanda lecita.
Sappiate che il neuropsicologo non vi apre il cranio, come si farebbe con un melone. Nemmeno vi spolpa il cervello per scovare qualche anomalia, come un aruspice. Avete presente quei sacerdoti che nell’antica Roma esaminavano le viscere degli animali per trarne segni divini? Ecco, questo è un esempio di cosa NON è un neuropsicologo!
Il neuropsicologo per studiare i processi cognitivi usa il colloquio e i test.
Nel colloquio si indagano aspetti relativi all’anamnesi (es. dati personali, presenza di malattie o eventi traumatici passati ecc.) e aspetti qualitativi del funzionamento cognitivo del paziente (es. eloquio, collaborazione, consapevolezza dei disturbi ecc.).
Con i test si indagano, invece, aspetti di tipo quantitativo del funzionamento cognitivo. Infatti, si hanno dei veri e propri punteggi riguardanti lo stato cognitivo globale o le singole funzioni cognitive come la memoria, l’attenzione ecc.
Al neuropsicologo e al neurologo, però, può essere utile, per una miglior definizione della sintomatologia, la lettura di esami strumentali. Questi, infatti, permettono di vedere se ci sono alterazioni a livello strutturale o funzionale nel cervello del paziente.
Gli esami neurologici: introduzione agli esami strumentali
Nella seconda metà dell’800, lo studio del cervello avveniva su singoli casi neurologici: si osservava una persona con un disturbo e poi, solo con l’avvento della morte e quindi grazie all’autopsia, vi era la possibilità di esaminare dove stava il problema a livello cerebrale. Lo studio portava poi alla redazione di descrizioni che presentavano il caso clinico e le indagini fatte sul suo cervello post-mortem. Converrete con me, che questo metodo era piuttosto limitante.
Più tardi, a partire dagli anni ’70, c’è stata però una vera e propria rivoluzione nello studio del cervello. Questa avvenne grazie allo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine, che permettevano di indagare la corteccia cerebrale in vivo. Qui di seguito presenteremo alcuni esami neurologici, che sono degli indizi preziosi in grado di aiutare i professionisti a seguire una pista d’indagine.
I metodi strutturali
I metodi strutturali forniscono un’immagine che ci permette di visualizzare, in presenza di una lesione, un’alterazione della struttura macroscopica del cervello.
TAC
La tomografia assiale computerizzata (TAC) permette di avere delle immagini sulle varie strutture cerebrali.
Proprio per la diversa capacità di assorbimento dei raggi X da parte dei vari tessuti encefalici, la TAC è in grado di darci un’immagine di essi distinguibili in base alle differenti tonalità di grigio (es. il liquor è scuro, il tessuto osseo è bianco, il sangue è grigio chiaro ecc.).
In questo modo, il professionista può vedere la dimensione, la natura e la sede della lesione cerebrale nel paziente.
RMN
La risonanza magnetica nucleare (RMN) permette di avere immagini sulle strutture cerebrali (come la TAC) ma si basa sull’uso di apparecchiature in grado di generare campi magnetici di intensità variabile.
Rispetto alla TAC, la RMN ha una risoluzione maggiore delle immagini e una migliore differenziazione tra sostanza bianca e grigia. Inoltre, ultimo ma non meno importante, il paziente non viene investito da consistenti dosi di radiazioni.
I metodi funzionali
La TAC e la RMN, essendo metodi strutturali, non ci forniscono informazioni sulle alterazioni di tipo funzionale. I metodi funzionali sono tutti quei metodi che mirano a captare l’attività di un tessuto piuttosto che la sua struttura.
CBF
Per misurare l’attività cerebrale, inizialmente, l’unico metodo possibile era la misurazione del flusso sanguigno nelle varie zone del cervello. Il principio di base era: se l’attività di una zona del cervello è alta, allora quest’area avrà un maggior metabolismo e dunque richiederà una maggiore quantità di sangue.
Una delle prime tecniche funzionali fu, quindi, la misurazione del flusso ematico cerebrale (cerebral blood flow = CBF) introdotta da Lassen e Ingvar (1961). Prevedeva di iniettare nella carotide di un paziente un isotopo radioattivo (Xeno 133) che arrivasse al cervello e, poi, di misurarne la sua distribuzione cerebrale attraverso dei detector che rilevavano le radiazioni gamma da lui emesse.
Si trattava di un metodo molto invasivo che aveva, tra l’altro, lo svantaggio di limitarsi allo studio di un solo emisfero cerebrale.
SPECT
La tomografia ad emissione di singoli fotoni (Photon Emission Computerized Tomography = SPECT) è una tecnica più recente della CBF che utilizza anch’essa un tracciante radioattivo e ne misura la distribuzione attraverso un sistema rotante di rilevamento (la gammacamera).
I raggi gamma rilevati da questo detector sono poi elaborati e convertiti da un computer in immagini del cervello simili a quelle della TAC. Con questa tecnica si ha il vantaggio di avere sia una visione strutturale sia un’informazione di tipo funzionale del cervello.
PET
A differenza della CBF e della SPECT, che misurano indirettamente l’attività cerebrale rilevando la richiesta di sangue in determinate zone del cervello, la tomografia ad emissione di positroni (Positron Emission Tomography = PET) ha sicuramente il vantaggio di studiare in modo un po’ più diretto lo stato funzionale dell’encefalo attraverso la rilevazione del metabolismo del glucosio (unica fonte di energia delle cellule nervose).
In particolare, la PET utilizza un tracciante (18-Fluorodesossiglucosio = FDG) marcato con una sostanza radioattiva (Fluorina 18). L’isotopo radioattivo, decadendo, emette positroni che, interagendo con gli elettroni, emettono raggi gamma registrabili con un sensore.
L’accumulo di FDG nel cervello è proporzionale alla quantità di glucosio utilizzato nelle sue varie zone. Un computer, poi, ricostruisce delle immagini colorate dell’attività metabolica del cervello sulla base della distribuzione dei raggi gamma.
Inoltre, attraverso la PET, è possibile misurare anche il flusso sanguigno usando in questo caso un isotopo marcato dell’ossigeno (ossigeno-15) e studiando, quindi, la distribuzione di esso nei tessuti.
fMRI
La risonanza magnetica funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging = fMRI) sfrutta le proprietà magnetiche dell’emoglobina, ossia quella proteina che ha il compito di trasportare l’ossigeno nel sangue.
Quando l’emoglobina cede ossigeno ai tessuti, si trasforma in desossiemoglobina e i sensori della macchina vanno proprio a misurare il rapporto tra emoglobina ossigenata e deossigenata, producendo così un segnale.
Quest’ultimo è detto BOLD (Blood Oxygen Dependent Level) e si tratta, appunto, di un segnale dipendente dal livello di ossigenazione del sangue. Rispetto alla PET, la fMRI ha sicuramente una miglior risoluzione.
EEG
L’elettroencefalografia è una tecnica che studia direttamente l’attività elettrica del cervello, utilizzando degli elettrodi di superficie applicati sul cuoio capelluto.
L’attività elettrica cerebrale verrà riprodotta graficamente in un tracciato contraddistinto da diverse onde.
L’EEG è utile in quanto può registrare anomalie dell’attività elettrica caratterizzanti alcune malattie come l’epilessia, i disturbi del sonno, la demenza, l’encefalite, i tumori cerebrali, gli ictus ecc.
MEG
La magnetoencefalografia, invece, permette la registrazione dell’attività cerebrale misurando i campi magnetici prodotti dalle correnti elettriche nel cervello.
È un esame piuttosto veloce, cosa che lo rende vantaggioso rispetto alla fMRI, ed è in grado di stabilire dove sia presente una maggiore attività cerebrale con più precisione rispetto all’EEG.
La scansione del cervello avviene attraverso lo SQUID (Superconducting Quantum Interference Device), ovvero un dispositivo superconduttore a interferenza quantistica. È poi necessario un computer che misuri l’attività neuromagnetica e sovrapponga i risultati sull’immagine anatomica del cervello.
La MEG viene spesso usata in ambito chirurgico per la pianificazione delle operazioni al cervello.
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Esame neurologico: conclusioni
Con questo articolo abbiamo parlato, inizialmente, di esame neurologico e neuropsicologico. Abbiamo capito che per avere una comprensione a 360° del nostro cervello è necessario sottoporsi ad un esame neuropsicologico.
Questo, grazie al colloquio e ai test, ci permetterà di avere una definizione migliore della sintomatologia del paziente. Inoltre, aiuterà il neurologo ad avere delle informazioni sui vari processi cognitivi con lo scopo di arrivare al più presto ad una diagnosi.
Siamo passati poi a delineare la differenza tra i principali esami strumentali e quanto possono essere utili al professionista durante la prima visita.
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